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La storia del mese: una città ai margini

Periferia di Trujillo (foto T. Saccarola)

La storia del mese: una città ai margini

Trujillo, terza città del Perù, è vittima di una urbanizzazione selvaggia, senza regole né progettualità. Una periferia anche sociale, dove migliaia di persone vivono in tutti i sensi ai margini. Di Marianna Sassano

Trujillo è una delle città più importanti del Perù. Si trova sulla costa, la parte più ricca del paese. Abbaglio nemmeno troppo sbrillucicante di promesse di futuri guadagni, é ovviamente sovrappopolata, a causa dei continui flussi migratori di persone che vengono dalle regioni rurali, più interne e più povere: la Sierra (la montagna) e la Selva (la foresta amazzonica).

La popolazione di Trujillo cresce giorno dopo giorno. Le persone arrivano in città e iniziano a colonizzare le periferie. Ma la città è già oltre il limite delle sue capacità di contenimento; e così i nuovi insediamenti allargano il territorio di Trujillo spingendolo verso il deserto e le colline tutt’intorno al territorio urbano.

Le persone costruiscono da sè le “case”: capanne fatte di nylon e di materiali di recupero, poggiate sulla sabbia, senza fondamenta. L’obiettivo infatti non è quello di creare una vera e propria abitazione, ma solo di guadagnare il più velocemente possible la proprietà del terreno. Semplicemente piazzandosi lì.

Il processo, infatti, inizia con la scelta del suolo e l’insediamento della famiglia. Quando la capanna è pronta, nessuno può essere più mandato via. E qui si innesta un meccanismo contorto: nei dintorni periferici di Trujillo non vivono solamente i migranti provenienti dalla Sierra e dalla Selva; anche gli abitanti del centro di Trujillo hanno iniziato a mettere gli occhi su queste aree suburbane, per allargare le loro proprietà senza doverle acquistare.

Il risultato è un’urbanizzazione completamente deregolata, senza alcun servizio sanitario seppur di base, o senza nessun centro educativo. Nemmeno un negozietto. Niente. Le persone vivono qui in condizioni di estrema povertà.

Ma il risultato peggiore è la perdita della speranza. La vita in città è difficile e costosa, specialmente per chi arriva dalle zone rurali interne al Paese. L’integrazione non è un processo naturale, specie in un contesto in cui mancano strutture di sostegno e accompagnamento della popolazione: per molti il disadattamento si trasforma nell’accettazione passiva di qualsiasi condizione di indigenza. Quelle case, quelle baracche costruite in modo precario e veloce non appena arrivati, giusto per accaparrarsi il territorio, con mille sogni per un futuro migliore, diventano per moltissime persone le uniche case che si potranno permettere. Per tutta la vita.

Notizia del 22/03/2011


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