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Visita in ospedale

Donne in attesa all'Ospedale di Monapo Rio

Approfondimenti

La storia del mese: visita in ospedale

Chi si farebbe ricoverare nel nord rurale del Mozambico? In una mattina di giugno, medici e infermieri ci hanno aperto le porte all’Ospedale di Monapo Rio. Di Marianna Sassano

Sullo sfondo ci sono due fabbriche, una per la lavorazione del sapone a olio e una per la castagna di anacardio. Un po’ più in qua gli appartamenti per i dipendenti: condomini quasi occidentali contornati dalla sabbia e dal mato, nel nulla naturale del nord del Mozambico. E poi, di fronte a noi, l’ospedale. Ha costruito tutto “la fabbrica”: e non importa se adesso questo tutto è lasciato a se stesso, se le case sono disabitate, se le coperture sono in amianto; questa è una zona preziosa, c’è persino una sbarra bianca e rossa per le macchine.

Si entra. Andiamo a visitare l’ospedale rurale di Monapo Rio, dove c’è Abudo Amando, l’infermiere capo, che ci aspetta. L’atmosfera, appena entrati, è quella di una sala d’aspetto di un vecchio ufficio postale. È da qui che inizia il giro turistico.

Prima tappa, il dentista. Il compressore non va, i ferri sono dentro ad un secchio di quelli per lavare il pavimento e, sotto al lettino, in terra, c’è una pozza di sangue. Nel reparto di fisioterapia, seconda tappa, la situazione non è migliore: l’ambulatorio, ci spiega il tecnico, non ha nemmeno le apparecchiature basilari come le trazioni, le rotative, i tapis roulant.

L’ospedale si sviluppa attorno ad una corte esterna, come spesso le architetture di qui, e la terza tappa è appunto nel portico, dove ci sono la lavanderia e la cucina.

Lavanderia: ovvero un signore tutto curvo su una tinozza, che lava a mano lenzuola, teli della sala operatoria, camici. L’acqua, almeno, c’è (talvolta il servizio viene sospeso), ed è calda. Così come bollente è l’acqua in cucina: solo che bolle sul fuoco vivo, mica sui fornelli a gas, e il fumo ha letteralmente dipinto di nero pareti e soffitto. C’è un unico grande pentolone: menù fisso per tutti, non importa quale sia la malattia.

Ritorniamo dentro, ascoltando ad ogni passo lo sconforto dei 12 tecnici che lavorano qui, degli infermieri, degli unici due medici in servizio e di Abudo Amando, che descrive tutto come “improvisado”. 180mila persone si servono di questo ospedale, vi arrivano da tutto il distretto.

Guardandola in prospettiva, la situazione sembra rischiararsi: un poliambulatorio per le visite pediatriche e il day hospital sono in costruzione; le campagne di vaccinazione sono partite da poco, medici e infermieri vanno nelle fabbriche, nelle scuole, nei villaggi con le “brigate mobili”. Il pronto soccorso, che prima funzionava fino alle 15.30, adesso è operativo 24 ore su 24.

Però, oggi, non funziona nessun bagno. Al momento della nostra visita sono ricoverati solo 26 pazienti, ma la sala operatoria non è agibile. C’è una sola infermiera per pediatria e maternità, e in quel reparto piove dentro. Non ci sono vetri. Non è possibile fare le analisi del sangue complete: i pazienti devono andare a Nampula, a circa due ore di strada. Non si riesce ad organizzare una banca del sangue per le trasfusioni perché non si possono conservare le sacche.

La settimana precedente alla nostra visita, ci spiega il dottor Ricardo G. Puente, c’erano 148 bimbi malati di malaria ricoverati in 8 letti. Per dormire, si davano il turno.

Notizia del 20/11/2009


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